Mi emoziona la gioia degli altri. Anzi no. Mi commuove proprio.
Mi commuove la gioia degli altri perché è una esplosione, perché è un momento incontenibile, un momento d’arte.
E l’arte in ogni sua manifestazione pura, mi commuove. Ogni sprazzo d’arte, anche fugace è come se mi connettesse con la vera essenza vitale. E la spia sul mio cruscotto è quell’immediato e involontario inumidirsi degli occhi, che ho imparato a riconoscere e ad apprezzare, come una sorta di segnale, come un semaforo in grado di rivelarmi e svelarmi se in quel preciso momento sono o non sono connesso con il tutto.
Mi commuove dunque la gioia dei concorrenti di X Factor selezionati per la fase dei live, ma anche il vincitore del quiz televisivo serale, sinceramente, ma felicemente stupito per avere indovinato la parola giusta.
Mi commuove la gioia di chi gioisce per aver superato un esame, per aver ricevuto un regalo, per aver incontrato un amico, per avere vinto un premio, per aver ricevuto un complimento, per essere arrivato primo ad una gara.
Mi commuove meno il dolore, del quale mi sento partecipe, e che magari mi trascina e coinvolge, ma è diverso.
Ci ho pensato e credo che sia perché la gioia è un piccola o grande esplosione che manifesta un sentimento, una emozione che supera la dimensione dell’essere umano. Grande o piccola è comunque sproporzionata e a conti fatti immotivata, dura poco e dunque trascende l’episodio in se. Toccare il cielo con un dito, si dice, e appunto è questo quello che intendo.
Il dolore invece ci travolge e poi devasta, si prolunga, ma è profondamente e intimamente umano.
Il dolore degli altri non mi sembra abbia a che fare col divino; per commuovermi devo conoscere e pensare alla storia, al motivo, immedesimarmi, provare a provarne un po’ anche io.
La gioia invece no. La gioia degli altri mi commuove all’istante proprio perché attraverso quella piccola sorprendente esplosione mi sembra di toccare, per un attimo, anche io il cielo con un dito.
(articolo già pubblicato il 19 ottobre 2018 nella rubrica “La Moka” del quotidiano online “Il Foglia”, che ha da qualche tempo sospeso l’attività; è dunque irreperibile online, e ho ritenuto opportuno ripubblicarlo)
Ho sempre pensato che gli obblighi, così come i divieti, in un mondo ideale dovrebbero essere sempre dei provvedimenti temporanei.
Ogni limitazione alla libertà personale di scegliere di agire in un certo modo, dovrebbe essere un provvedimento che tampona una emergenza. O, al più, che induce un comportamento che difficilmente scaturirebbe spontaneamente o comunque richiederebbe tempi lunghissimi, e che dunque una “autorità illuminata”, proprio in quanto illuminata e in virtù del potere attribuitole, impone, appunto, un po’ come fosse un promemoria. E che dunque resti obbligatorio solo fino a che rischieremmo di “dimenticarcene”. Per essere poi revocato come imposizione una volta che il comportamento è entrato nell’uso comune e adottato come libera scelta e non più come conseguenza di un obbligo.
Se domani, dopo quasi 33 anni decadesse l’obbligo di indossare il casco, cosa succederebbe? Si tornerebbe alla situazione precedente al 10 luglio 1986, con centauri sfreccianti con criniere al vento anche in autostrada, anche a 200 all’ora?
Io all’epoca c’ero, e per 13 anni ho circolato col mio bel Nolan nero con banda a scacchi, lasciato al sicuro a casa, o agganciato al portapacchi, ma oggi sono certo che non tornerei indietro e invece continuerei ad indossarlo il mio casco, e ben allacciato, perché ormai, quel comportamento è entrato a far parte della mia “cultura”.
Nelle prossime settimane andrò “in tour” nelle scuole pesaresi a descrivere “Campo Pratica”, uno strumento attraverso il quale gli studenti possono collaborare attivamente alla realizzazione dei principali eventi culturali e turistici dell’estate pesarese.
Quattro anni fa, quando l’ho ideato, sono stato fortunato. La proposta infatti era arrivata al momento giusto, in contemporanea con la decupilcazione delle ore di “alternanza scuola lavoro” e del contemporaneo obbligo di documentarle, pena la non ammissione all’esame di maturità.
Non per vantarmi, ma l’idea era ottima già di suo, ma abbinata all’obbligo è diventata “irresistibile”.
Dopo quattro anni, il monte/ore è stato dimezzato e pur essendo indicato come obbligatorio, non è più condizione necessaria per essere ammessi all’esame. Ma la qualità dello strumento e della proposta mi fa ritenere che verrà apprezzato da studenti e istituzioni scolastiche anche “oltre l’obbligo”.
Probabilmente si tratta di una utopia, ma mi piace l’idea che alle volte potrebbe anche esserci bisogno di una spintarella, ma poi, se il tema è valido e magari si attuano, ad integrazione dell’obbligo, anche azioni di persuasione e incentivazione, sarebbe bello scoprire che certi comportamenti virtuosi proseguono e contribuiscono alla crescita di una società, anche senza mantenere in eterno imposizioni, divieti e azioni sanzionatorie.
L’episodio, anzi il fattaccio dell’autobus di San Donato Milanese, mette in evidenza il gigantesco corto circuito nel quale ci si ritrova ogni volta che ci si ostina a considerate il modo come nettamente diviso tra “noi” (i buoni?) e “loro” (i cattivi?).
Probabilmente in Italia ce ne siamo accorti con leggero ritardo, ma il mondo è da molto tempo che è andato avanti, assimilando gli spostamenti migratori di chi, nonostante quello che ci si ostini a pontificare, se ha radici, quelle sono metaforiche e sentimentali, ma invece i piedi li ha reali e buoni e li usa per cercare contesti ambientali adatti come minimo ad una più che meritata sopravvivenza, e, quando possibile a qualcosa di più.
Insomma, gli “alieni” sono in mezzo a noi, anzi, siamo noi, tutti a noi, a far parte di una società che include sia l’autista che adesso, probabilmente su consiglio del suo avvocato, per mitigare le conseguenze processuali del suo gesto cerca di fingersi pazzo (come se invece senza dichiarare di aver seguito le voci dei bimbi morti in mare potesse temere di essere scambiato per sano di mente) e i bambini che seguendo l’impulso di proteggere il prezioso smartphone da chiunque glielo voglia sequestrare, riescono con tutta l’incoscienza della fanciullezza a salvare una situazione che rischiava di precipitare nella tragedia.
Ma in questa stessa società ci sono anche i Carabinieri che senza indugio decidono di farsi speronare per fermare la corsa dell’autobus, senza stare a perdere tempo a far riflessioni su quello che prescriverebbe in questi casi il regolamento; e la mamma del bambino che al telefono all’inizio stenta a credere che non si tratti dell’ennesimo scherzo dell figlio.
E poi lo stesso vicepresidente del consiglio, che posto di fronte alla questione della cittadinanza, consiglia al giovane “eroe per caso” di aspettare i 18 anni, e poi entrare in politica e avere la possibilità farsi così la sua legge (ah, è così che si fa?).
E allora, dunque? Chi siamo noi e chi sono loro? Chi sono i buoni e chi sono i cattivi? C’è un modo reale di prendere le distanze per “proteggersi”? E da chi ci si dovrebbe proteggere? E come?
Quando nei western della antica tv dei ragazzi arrivava, preceduto dagli squilli di tromba della “carica”, lo squadrone a cavallo “dei nostri” che davano avvio senza indugio e a colpi di fucile alla strage dei cattivi armati (ahimè per loro) di archi e frecce, non sono mai riuscito a godere appieno per lo scampato pericolo.
Forse perché già allora il tentativo di rendere ben chiara e netta la suddivisione tra noi e loro, tra i buoni e i cattivi, mi sembrava poco riuscito.
Anche perche spesso, ad impersonare i feroci pellerossa erano attori dai tratti somatici poco credibili e per colpa della tecnologia ancora primitiva, nonostante il bianco e nero, risultava poco evidente la differenza di colore.
Come è noto, da qualche settimana Il Foglia, che sin dalla sua presentazione del settembre 2016 ospitava questa rubrica, si è preso una pausa.
Per poter continuare a … servire ogni settimana questa mia Moka fumante, è stato necessario cambiare… fornello.
Dopo averci pensato un paio di settimane, alla fine ho deciso di iniziare ad utilizzare la sezione blog del mio sito www.paolopagnini.it.
Il fatto è che dopo quasi due anni e mezzo, mi sarebbe proprio dispiaciuto venir meno a questo impegno, che mi sono preso non tanto e non solo nei confronti dei miei più o meno numerosi e più o meno affezionati lettori, ma soprattutto di me stesso.
La voglia/necessità di sfornare ogni settimana qualcosa di sensato, condensato in qualche migliaio di caratteri, ha infatti un po’ modellato la mia quotidianità, spingendomi a seguire con più di attenzione fatti, antefatti, retroscena e curiosità della vita di ogni giorno.
Insomma la voglia di raccontare si è giocoforza trasformata in attitudine ad osservare.
A volte gli argomenti abbondano, a volte scarseggiano. A volte sono più pubblici, a volte più privati.
Ma di certo, da quando sono entrato in questa speciale modalità, mi ritrovo a notare, e spesso annotare, dettagli e particolari che normalmente mi sarebbero di certo passati inosservati.
Qualche giorno fa, ad esempio, facendo colazione, ho pensato alla marmellata che resta attaccata al barattolo vuoto. Mentre tentavo, col cucchiaino, di tirar via gli ultimi rimasugli, ho pensato a quanta marmellata, e a quanto prodotto in generale, resti appiccicato ai contenitori, e finisca o nel lavabo, come appunto la marmellata o la nutella, oppure in discarica come la maionese nel tubetto, o il dentifricio.
Certo, si tratta di pochissimi grammi, ma chissà, mi sono detto, se qualcuno ha mai conteggiato di che quantità parliamo se estendiamo il calcolo all’intera nazione, o addirittura a tutto il mondo?
Naturalmente mi sono chiesto quanto incidesse la forma dei barattoli, e la voglia e perseveranza dei consumatori di continuare a far scivolare il cucchiaino lungo le pareti di vetro, e se in qualche misura ci potesse essere della consapevolezza colposa o dolosa nelle aziende produttrici…
Capito, cosa mi succede, quando mi prendo, del tutto volontariamente e senza obbligo o coercizione alcuna, un impegno di questo tipo?
Ecco, non so se si possa definire una malattia. Ma qualunque cosa sia, è necessario che sia assecondata, quanto meno leggendo, ogni venerdì, fino all’ultima parola.
E magari prendendosi anche la briga di commentare.
Che dopo che uno si è impegnato a scrivere, leggervi il migliore dei compensi.